Machine Learning
Siamo arrivati a un momento di svolta: l’ultimo Report sull’Artificial Intelligence pubblicato dal MIT registra una percentuale preoccupante di fallimenti tra i progetti di IA. Fa stagliare nette alcune ombre, che sembrano destinate ad allungarsi, se non interviene un cambio di prospettiva, se non si acquisisce una nuova consapevolezza: Qualsiasi sia il progetto di Intelligenza Artificiale e di Machine Learning ― sono le parole dell’amministratore di Injenia Cristiano Boscato ― le aziende dovranno sempre, per accrescere il proprio valore di business e la propria competitività, salvaguardare e dare valore all’elemento umano: gli individui come fine ultimo delle attività aziendali e mai semplice mezzo.
C’è bisogno di fermarsi, prendere fiato, riflettere. C’è bisogno di respirare.
Il Report, in altre parole, riconosce che l’Intelligenza Artificiale non riguarda solo la tecnologia: le aziende che considerano l’IA come una “cosa tecnologica”, infatti, sembrano avere più difficoltà a generare valore di quelle che prevedono un più ampio contesto strategico e organizzativo.
Nel 2018 il mercato italiano dell’Intelligenza Artificiale valeva all’incirca 85 milioni di euro, tra spese di sviluppo e implementazione di sistemi di Intelligenza Artificiale, e la cifra sta progressivamente aumentando. Il livello di soddisfazione delle aziende italiane che hanno avviato almeno un progetto di IA è alto: il 68% dichiara che il progetto è andato bene, al di sopra delle aspettative.
Alcuni dati emersi durante l’ultimo Convegno dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano dipingono, al di là di questo clima di fiducia e di generico ottimismo, un quadro più complesso, in cui la conoscenza e la consapevolezza sul tema risultano fumose, parziali, approssimative. Il 58% delle persone intervistate pensa che l’IA e il Machine Learning siano in grado di replicare completamente i processi cognitivi dell’essere umano. Una definizione, questa, che interessa poco buona parte della comunità scientifica, convinta invece che l’intelligenza umana sia troppo complessa per essere emulata tout-court. Solo il 35% la identifica con alcune tecniche particolari, per esempio il Machine Learning, facendola coincidere però con la costruzione di modelli e algoritmi, mentre un misero 14% ritiene che l’IA si caratterizzi per lo sviluppo di sistemi dotati di capacità tipiche dell’essere umano, in linea con quanto affermato dall’Osservatorio. Una percentuale ancora più bassa, il 7%, infine, ha colto un aspetto fondamentale della definizione dell’Osservatorio, vale a dire che l’IA è un bersaglio mobile, che sposta il concetto di “intelligenza” ogniqualvolta vengono conseguiti dei successi dalla comunità scientifica in un ambito specifico.
La scarsa conoscenza, purtroppo, non è neutralizzata dalla consapevolezza di sapere poco e spesso male: le organizzazioni pensano di conoscere in modo adeguato l’Artificial Intelligence nel 48% dei casi e in modo superficiale nel 47%. Appena il 5% riconosce di avere un livello di conoscenza nullo.
È allora davvero necessario fermarsi un momento, raggruppare le idee e mettersi in ascolto, sfatare miti duri a morire, e affrontare, finalmente, temi solitamente trascurati. Riprendere fiato. Respirare.
Spesso la richiesta di un’azienda, quando investe in progetti di IA e Machine Learning, si articola in una old Trinity – algoritmi, hardware, dati – in cui la potenza di calcolo (l’hardware) diventa la discriminante fondamentale. La questione deve essere ridimensionata. Nel 2019 la potenza di calcolo è in continuo, inesorabile aumento. Un esempio? Il computer quantistico non è più un esperimento scientifico ma diventerà in un futuro prossimo accessibile anche per il business.
L’altro elemento su cui le aziende appuntano le loro speranze e le loro preoccupazioni è l’algoritmo che, tuttavia, in quanto pura matematica ― dice Boscato ― è in grado di fare esclusivamente quello che gli si dice di fare. E niente di più.
Vorrei fornire alle macchine una qualche forma di buon senso, visto che oggi sono veramente stupide
Yann LeCun, uno dei tre inventori del deep learning
Quello che può davvero costituire un nuovo linguaggio e rappresentare un salto di qualità nel modo in cui l’intelligenza artificiale è concepita, percepita, sperimentata in ambito aziendale è la sostituzione della old Trinity di cui abbiamo detto con una new Trinity ― algoritmi, componente umana, dati. Al centro la componente umana, dunque, relativamente recente se considerata rispetto all’Intelligenza Artificiale, ma antichissima se prendiamo come riferimento l’evoluzione del rapporto uomo-tecnologia.
La componente umana è anche, evidentemente, psicologica e anche nel contesto aziendale, solitamente complesso, porta con sé gli splendori e le miserie che contraddistinguono da millenni la nostra psiche. Due i tratti distintivi più limitanti:
Per neutralizzare quest’ultima “miseria” non esistono vie di mezzo: Quando parliamo di intelligenza artificiale e di machine learning è tutto nuovo e quindi anche lo schema mentale dovrà essere nuovo ― afferma Cristiano Boscato ― e diventa fondamentale, allora, lavorare sulla cultura di ogni interprete aziendale.
Tutte le persone di un’azienda che si trovano a lavorare con l’intelligenza artificiale sono degli interpreti: sono chiamate, cioè, a operare un vero e proprio passaggio tra un sistema semiotico e un altro, tra un sistema di senso e un altro. Questo sforzo di traduzione deve partire dagli executive e a calare investire tutta l’azienda, in modo da creare le condizioni per l’affermarsi di una intelligenza collettiva.
A decidere se un algoritmo funziona oppure no e quali dati dargli in pasto sono sempre e soltanto le persone. L’intelligenza collettiva non nasce solo dai dati ma si genera e si struttura anche e soprattutto attraverso le esperienze individuali, quelle maturate sul luogo di lavoro da figure professionali dotate di diverse skills e specifici background. L’intelligenza collettiva ha bisogno di accedere a quelle variabili non strutturate, fluide, conversazionali, profondamente umane, che sono rintracciabili, per esempio, nelle chat dei servizi di messaggistica istantanea.
Qualsiasi sia il grado in cui possono realizzarsi i processi di automazione, con l’eccezione dei processi più ripetitivi che funzionano per automatismi, l’intelligenza artificiale prevede sempre il coinvolgimento delle persone: è lo Human-in-the-loop, l’approccio secondo il quale macchina ed essere umano coesistono all’interno di uno stesso sistema di senso, sistema che ad ogni innovazione deve essere ri-significato, secondo un tipo di apprendimento tipicamente umano.
Qui sta la ragione di un necessario cambio di passo. Negli ultimi 10 anni la tecnologia, prima ancora che in ambito lavorativo, ha avuto un impatto sulla società e sulla cultura. È l’uomo che deve attribuirle dei significati, altrimenti rimane vuota. Per Injenia la tecnologia è un abilitatore: nel momento in cui si riescono a integrare le funzionalità tecnologiche con i desiderata e le esigenze delle persone, allora può rappresentare veramente un motore di innovazione, di sviluppo, di efficientamento sui singoli processi. Ma, ancora una volta, a guidare e a dare significato a questi processi sono gli individui. Il concetto è: la tecnologia per le persone e mai viceversa.
Proviamo a centrare questa lunga riflessione, ricapitolando alcune conclusioni, inevitabilmente provvisorie. Abbiamo visto come i progetti di Intelligenza Artificiale possano fallire, anche in misura drammatica. Abbiamo proposto una nuova “trinità”, in cui la componente umana sostituisca l’hardware, andando a costruire un nuovo sistema di senso, meno dogmatico, ma potente, reale, sostenibile. Abbiamo messo in evidenza la necessità di elaborare un nuovo modo di concepire e applicare l’Intelligenza Artificiale che sia effettivamente al servizio delle aziende. Ma per farlo, prima, c’è bisogno di smontare e ― perché no, sdrammatizzare ― una specie di mitologia tecnocratica, l’ultima di una lunga serie, a cui periodicamente le persone sono tentate di abbandonarsi. Una mitologia suggestiva, consolatoria, forse, ma illusoria e destinata inevitabilmente a rallentarci, nel lungo periodo a spezzarci il fiato. Per questo fermiamoci. Respiro,
2019 MIT SMR-BCG Artificial Intelligence Global Executive Study and Research Report: 2.500 dirigenti contattati, 17 interviste con i maggiori esperti di settore
Convegno finale dell’Osservatorio Artificial Intelligence 2019
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