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All’insegna di molte incertezze e di cocciuta speranza, oggi inizia nel nostro Paese la Fase 2, il periodo a partire dalla quale, gradualmente, saranno allentate le misure restrittive imposte per contenere la diffusione del virus Covid-19 e saremo chiamati, tutti, a ricostruire una nuova normalità.
Le aziende come Injenia, che sviluppano innovazione in ambito tecnologico, dovranno a maggior ragione fare la loro parte, ancora più che nel recente passato: sia nel supporto alle aziende che devono attrezzarsi per ripartire, sia nel senso della diffusione responsabile di una conoscenza corretta e accurata di ciò che possiamo ragionevolmente attenderci dalle tecnologie attualmente in circolazione.
In questo articolo proveremo a raccontare i fallimenti e i successi registrati dalla tecnologia in uno dei periodi più complessi e drammatici degli ultimi decenni.
Proveremo a riflettere su come è cambiato il nostro modo di pensare la tecnologia in relazione alla cura, alla socialità, e alla privacy e le principali soluzioni fin qui adottate world wide. Tra queste, ci concentreremo su quelle che analizzano e utilizzano i dati e che prevedono l’integrazione dell’aspetto umano.
Le tecnologie ci sono, c’erano anche prima in realtà, ma hanno decisamente fallito nel prevedere l’emergenza.
Scrive Will Douglas Heaven per il MIT Technology Review in un suo report datato 12 marzo: che a Wuhan ci fosse qualcosa di strano lo avevano prontamente segnalato alcuni servizi di IA già il 30 dicembre scorso, quando BlueDot, società che utilizza tecniche di machine learning per monitorare le epidemie di malattie infettive nel mondo aveva avvisato i suoi clienti, inclusi vari governi, ospedali e aziende, che nella città cinese si era verificato un insolito aumento dei casi di polmonite. Ci sarebbero voluti altri nove giorni prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità segnalasse ufficialmente l’esistenza del Covid-19. Insieme a BlueDot anche l’ospedale pediatrico di Boston con il suo HealthMap e un modello gestito da Metabiota a San Francisco avrebbero colto gli stessi segnali.
Su quanto l’AI abbia realmente aiutato ad affrontare l’attuale epidemia la conclusione di Heaven è tranchant e non consolatoria, ma aperta al futuro: l’AI non potrà salvarci dal coronavirus ma potrebbe essere risolutivo nel caso di future epidemie, a patto che le istituzioni, politiche e sanitarie, prendano da subito decisioni importanti e difficili. Solo così le nuove tecnologie potranno influire positivamente sulla capacità di fare previsioni, effettuare diagnosi precoci, mettere a punto trattamenti efficaci.
Quello che possiamo quindi realisticamente aspettarci è che l’utilizzo di AI e ML consentiranno nel futuro prossimo non soltanto il contenimento, ma anche la previsione e la prevenzione. Condizione indispensabile perché questo avvenga è tuttavia la combinazione di agire tecnologico e sapere umano.
L’emergenza coronavirus ci sta sicuramente dando una serie di “lezioni”. Per qualcuno, come Alessandro Baricco, l’emergenza Coronavirus di ha obbligato in qualche misura a “fare pace con la tecnologia”, per usarla in modo intelligente e migliorare la nostra vita.
Per altri, come Domenico De Masi, professore emerito di sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma l’epidemia del coronavirus è un grande e prezioso esperimento sociologico che ha messo in luce com il modello per il futuro abbia come pilastri la globalizzazione e la tecnologia.
Altri ancora hanno parlato di scienza e tecnologia come di strutture complesse – scatole nere – da cui pretendiamo soluzioni rapide e certe a prescindere dai tempi richiesti dal problema e che finiscono, paradossalmente con l’alimentare, intorno a loro stesse, una sorta di “pensiero magico” e di “malinteso soluzionista”. Il Covid-19 diventa allora un rischio esistenziale collettivo inimmaginabile, una sorta di “nebbia” che cela l’orizzonte, una incertezza che teniamo a bada facendo ciò che facciamo da millenni in queste stesse situazioni: dei calcoli.
Tra apprendere le regole del Game, sentirci parte di un esperimento globalizzante e brancolare nell’incertezza dell’inaspettato, abbiamo provato a riflettere sull’insegnamento di queste settimane di quotidiana battaglia contro il virus: forse non si tratta tanto di imparare a contrastare il nostro scetticismo tecnologico quanto piuttosto di approfondirlo, liberarlo da visioni semplicistiche e da ottimismi filosofici un po’ superficiali. Non tanto quindi “scendere a patti” con la tecnologia quanto piuttosto rinnovare la fiducia, sofferta e continuamente messa alla prova, nella nostra capacità di governarla, la tecnologia, adottando approcci che mettano le persone al centro dei processi innovativi dei nostri sistemi sanitari e aziendali.
Quello che è certo è che, dal punto di vista pragmatico, serve una viral co-vision globale per condividere dati, strumenti, tecnologie, conoscenze e approcci in vista di sfide future.
I Big Data possono identificare e fornire una valutazione del rischio a cui ognuno di noi è esposto, in base alla nostra cronologia di viaggi, a quanto tempo abbiamo trascorso nei focolai o a contatto con persone a cui è stato diagnosticato il virus. Una serie di algoritmi di elaborazione della lingua naturale (NLP) sono impiegati attualmente, da società come per esempio BlueDot citata prima, per estrarre dai documenti sanitari ufficiali e dai social network informazioni che riguardano malattie ad alta priorità o endemiche e da report dei viaggi aerei informazioni sulla presenza di persone infette in arrivo o in partenza. Tutti i giorni riceviamo il bollettino del contagio, un altro sistema per tracciare in modo efficace l’espansione del virus.
Aziende, ospedali e centri di ricerca stanno implementando modelli di Intelligenza Artificiale e Machine Learning per potenziare la diagnostica del virus. I sistemi in Cloud permettono di rendere disponibili dati e strumenti implementati in un singolo ospedale a tutte le strutture sanitarie del paese.
Molte iniziative sono state quindi implementate, con risultati incoraggianti. L’AI ha però bisogno di molti più dati provenienti da fonti affidabili per essere davvero utile e le strategie per ottenere questi dati possono essere controverse: per ottenere previsioni migliori dobbiamo condividere più dati personali con aziende e governi. Nuove tecniche di elaborazione dei dati, come la privacy differenziale (già utilizzata da Google nei suoi servizi più avanzati) e il training degli algoritmi su dati sintetici e non reali, offrono interessanti prospettive di sviluppo.
I grandi player tech stanno mettendo a disposizione il loro patrimonio tecnologico e umano per rispondere all’emergenza. A livello consumer, Google ha sviluppato risorse informative dedicate e offerto dati in real-time in modo gratuito come, per esempio, attraverso la dashboard Google Data Studio realizzata per monitorare l’emergenza.
In ambito medico, la divisione DeepMind di Google utilizza la sua potenza di calcolo per individuare le proteine che formano il virus e così aiutare lo sviluppo di potenziali trattamenti. Sulla stessa onda, Benevolent-AI usa la sua tecnologia di elaborazione predittiva per proporre farmaci esistenti la cui combinazione potrebbe essere efficace contro il virus. Le prime sperimentazioni in questo senso sono avvenute nell’ospedale Cotugno di Napoli.
Il Campus Bio-Medico di Roma è stato il primo ospedale europeo a sfruttare i vantaggi dell’AI contro il Covid. Già nella prima metà del mese di marzo un modello AI è stato infatti addestrato a riconoscere dalle immagini delle TAC le aree dei polmoni alterate dal virus. Questo permette di fare diagnosi accurate fino al 98,5% in appena 30 minuti, contro le 24 ore necessarie per i tamponi. Il Campus Bio-Medico sta ora realizzando un sistema Cloud per la trasmissione delle TAC per fornire i benefici di questa tecnologia a tutti gli ospedali italiani.
Nella corsa per trovare una soluzione contro il coronavirus e per accorciare i tempi dello sviluppo di farmaci la ricerca tramite i supercalcolatori si affianca alla ricerca tradizionale: scende in campo anche la piattaforma di supercalcolo del Cineca, il consorzio interuniversitario di Bologna. Di fatto Cineca simula il comportamento delle proteine che consentono al virus di replicarsi: la piattaforma più performante al mondo testa virtualmente, tramite i supercomputer, tre milioni di molecole farmaceutiche al secondo partendo da un set di 500 miliardi di molecole e si concentra su quelle più efficaci a inibire il virus, che saranno poi utilizzate nella realizzazione di farmaci.
La Cina è stato il primo Paese al mondo a scendere in campo adattando il suo potenziale tecnologico alla sfida coronavirus, sviluppando nuove applicazioni e modelli di prevenzione basati sui dati. Nel mezzo dell’emergenza sanitaria, ha chiamato all’appello colossi tech come il gigante dell’e-commerce Alibaba, il principale motore di ricerca in lingua cinese Baidu e Tencent società di investimento che offre innumerevoli servizi di comunicazione. La reazione è stata immediata: hanno messo sul tavolo tutte le loro migliori tecnologie di Big Data, Intelligenza Artificiale e robotica.
L’AI di Alibaba, per esempio, ha sviluppato un sistema di diagnosi per rilevare tramite TAC e Eco i casi di coronavirus in 20 secondi, con un tasso di accuratezza fino al 96%. Questo permette di abbattere i tempi d’attesa dei tradizionali tamponi.
In oltre 40 ospedali sono stati implementati robot per la gestione dei servizi essenziali delle strutture sanitarie con l’obiettivo di ridurre le interazioni tra contagiati e personale sanitario: pulizia, sterilizzazione, consegna cibo e medicine. Ci sono anche i cosiddetti Disinfection robot in grado di individuare i batteri per la sterilizzazione e la pulizia degli ambienti.
Come abbiamo appena visto, la Cina ha applicato misure draconiane nella sua battaglia contro il Covid-19: stretta sorveglianza sulle persone, lock-down di intere città, obbligo di utilizzo di una app di tracciamento con trasferimento real time dei dati alle forze di polizia, controllo rigoroso sui mezzi di informazione e comunicazione, obbligo di registrazione per l’uso dei mezzi pubblici.
La politica attuata dalla Corea del Sud si è configurata diversamente, passando, almeno dal punto di vista formale, attraverso:
Il sistema si è inoltre fondato su un progetto di Smart City già avviato dal governo centrale. La tecnologia era presente, e i cittadini ne facevano ampio uso (il 95% della popolazione possiede uno smartphone).
Il governo sudcoreano ha potuto raccogliere una quantità enorme di dati, provenienti da una serie di fonti, non solo governative perché esiste una base giuridica che rende possibile, esclusivamente per finalità di controllo delle malattie infettive, l’applicazione delle misure per il monitoraggio che abbiamo nominato. È la stessa legge coreana che consente quindi alle autorità l’accesso a dati personali come quelli provenienti dal tracciamento da mobile tramite GPS e dalle transazioni con carta di credito, dati che solo dietro specifiche condizioni sono poi trasmessi anche agli operatori sanitari.
Sistemi big data, AI e ML sono stati anche usati in modo discutibile in termini di privacy ma la tendenza della maggior parte della popolazione come spiega anche Yuval Noah Harari sembra quella di rinunciare temporaneamente a parte dei suoi diritti in materia di privacy se la contropartita è la tutela della salute, almeno nei momenti di emergenza.
Si è parlato talvolta di una sorta di AI di Stato, per indicare soluzioni che “anticipavano” il virus, identificando individui solo potenzialmente infetti o che adottavano comportamenti non conformi: app per identificare, tracciare e prevedere i focolai attraverso analisi dei social media e dei documenti governativi, tecnologie di riconoscimento facciale combinate a software di rilevamento della temperatura, addirittura l’uso di Droni, impiegati per pattugliare gli spazi pubblici, dotati di soluzioni per l’imaging termico, con cui rilevare a distanza eventuali sintomi nelle persone.
Rimangono molti dubbi: cosa ne sarà della privacy dei cittadini a seguito di questa massiccia raccolta di dati, a emergenza rientrata? Come i governi utilizzeranno sistemi di controllo come droni, imaging termico e big data, sentiment e opinion analysis dei social media?
In Italia gli scenari tecnologici che preannunciati per questa Fase 2 insistono su mobilità e comunicazioni, con il potenziamento del traffico da mobile grazie allo standard di telefonia cellulare 5G, l’introduzione su base volontaria di app per il tracking e l’investimento su piattaforme di collaboration aziendale per il lavoro da remoto. Non esistono però tecnologie miracolose e soprattutto non esistono tecnologie neutre. La questione è molto più complessa: in tempo di emergenza, molti di noi sono pronti a fare delle rinunce e ad accettare soluzioni che potrebbero limitare alcuni diritti, come per esempio la privacy. Come abbiamo visto, in uno stesso Paese, la Cina, può succedere che convivano approcci etici human-oriented ed altri di diverso registro: entrambi, di fatto, in situazione emergenziali possono portare a dei risultati.
Il punto è che big data, AI, ML e Cloud possono aiutare a risolvere le emergenze e a farci rimanere produttivi in situazioni di quarantena o di graduale riaperture. Ciò che è fondamentale, però, è tenere sempre l’uomo al centro. La tecnologia da sola non serve e non basta: bisogna riportarla all’interno di un discorso di interpretazione del dato. Per fare questo occorre che le persone, con la loro conoscenza, esperienza, creatività e intuito trasformino i dati per farli diventare thick e meaningful, capaci cioè, davvero, di significare.
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